Quella lenta riscoperta delle proprie origini ricordando i caduti austroungarici contro la damnatio memoriae del nazionalismo italiano

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Timidamente, negli anni, son sorti dei cippi, delle targhe, dei monumenti, defilati o meno, con i quali ricordare ciò che dall'avvento del Regno d'Italia in poi in buona parte del Friuli è stato sostanzialmente cancellato dalla memoria pubblica, ma non ovviamente da quella privata. Un territorio legato all'impero asburgico, che ricorda i propri caduti italiani che hanno lottato per la propria terra asburgica. Nei ricordi  memorie delle famiglie che si son tramandate nel tempo è difficile raccogliere testimonianze negative di quel periodo, sostanzialmente si viveva tutti assieme, ognuno con le proprie peculiarità e l'irredentismo italiano era solo una minoranza di un manipolo di esagitati. Poi, come ben sappiamo, con la guerra, le cose son cambiate in modo terrificante, per arrivare alla dannazione della memoria che ha voluto cancellare secoli e secoli di appartenenza asburgica. Lentamente, questi cippi, targhe, dal cimitero di Ronchi, al comune di Villesse, a Lucinico,

Quelle ombre su Schifani

tratto dall'espresso.it

Ci sono ombre inquietanti che si dipanano nel passato del presidente del Senato Renato Schifani. Eda questa oscurità sembrano spuntare di tanto in tanto spettri che avvolgono la vita personale e professionale degli ultimi trent'anni dell'avvocato e senatore eletto nel collegio siciliano di Altofonte- Corleone sotto l'insegna di Silvio Berlusconi. Su questo passato ancora poco chiaro il leader dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, è stato molto preciso: «Sappiamo che, secondo molti testimoni, l'avvocato Schifani aveva rapporti con ambienti pericolosi. E il suo ruolo andava ben oltre la semplice assistenza legale. Sono ombre che non lasciano tranquilli».

Sgomberare le ombre misteriose e parecchio aggressive che circolano attorno a questo avvocato che ha difeso davanti ai giudici il patrimonio accumulato dai boss mafiosi e che oggi, quando si parla di Pdl difende sempre tutto e tutti, è un ruolo che spetta alla magistratura. Proprio per questo i pm di Palermo vogliono fare luce su questa zona grigia a partire dal contributo che potrebbe offrire il dichiarante Gaspare Spatuzza.

Ma non è il solo chiamato dalla procura a parlare di Schifani, vi sono anche altri testimoni in lista d'attesa. L'ex boss del quartiere Brancaccio lo scorso ottobre si è aperto con i magistrati di Firenze ed ha sostenuto, durante un interrogatorio, che l'attuale seconda carica dello Stato nei primi anni Novanta avrebbe avuto un ruolo nel mettere in contatto i mafiosi stragisti Giuseppe e Filippo Graviano con Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi.

La procura fiorentina non ha approfondito il tema perché non è di sua competenza, ed ha inviato a Palermo il verbale top secret. Solo in parte è stato depositato nel processo d'appello a Dell'Utri, ma il fulcro sul quale potrebbero ruotare nuovi scenari giudiziari e politici è ancora coperto dalla massima segretezza. Il boss Giuseppe Graviano di cui parla il dichiarante è lo stesso che nel 1993 subito dopo avere organizzato le stragi di Roma, Milano e Firenze, avrebbe detto a Spatuzza «ci siamo messi il Paese nelle mani» grazie a Berlusconi e Dell'Utri che stavano per entrare in politica.

Ciò che afferma Spatuzza sul ruolo di Schifani nel mettere in contatto i Graviano con Dell'Utri e Berlusconi è solo farina del suo sacco o è stata davvero una confidenza del boss stragista? A sciogliere il nodo saranno i pm siciliani che a settembre interrogheranno Spatuzza per chiarire questo collegamento e valutare eventuali sviluppi giudiziari.

Renato Schifani Renato Schifani Su Schifani pende infatti un'archiviazione - decisa dal gip di Palermo nel 2002 - per concorso esterno in associazione mafiosa: un procedimento che può essere riaperto solo con l'arrivo di nuovi elementi d'accusa.

L'inchiesta archiviata nei confronti del presidente del Senato, all'epoca avvocato civilista, riguardava vicende diverse e prendeva le mosse dalle dichiarazioni del pentito Salvatore Lanzalaco su un appalto che sarebbe stato pilotato dalla mafia a Palermo.

Erano i primi anni Novanta e in quel periodo i lavori pubblici venivano decisi attorno a un tavolo al quale sedevano i boss, gli imprenditori e i politici. Lo studio di progettazione di Lanzalaco preparava gli elaborati per le gare, i politici mettevano a disposizione i finanziamenti, le imprese si accordavano, la mafia eseguiva i subappalti. Inoltre clan e uomini di partito incassavano anche una tangente.

Tutt'altra storia rispetto alle trattative condotte dalle cosche nel 1993 per trovare nuovi referenti politici. Ma pur sempre indagini relative all'ipotesi di un sostegno esterno a Cosa nostra e che potrebbero venire quindi riaperte in base alle nuove dichiarazioni di Spatuzza.

Il procuratore Francesco Messineo ha deciso che a occuparsi della questione saranno gli aggiunti Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci e i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido, che hanno già individuato una lista di persone da sentire: oltre a Spatuzza, il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, il giovane politico di Villabate, alle porte di Palermo, amico dell'ex ministro Mastella, che fece arrivare a Bernardo Provenzano la falsa carta d'identità per il ricovero a Marsiglia.Ma a ricevere la convocazione dei pm potrebbe essere anche un ex cliente di Schifani: un imprenditore condannato per riciclaggio che aveva nominato il presidente del Senato nel consiglio di amministrazione di una sua società, secondo Schifani a sua insaputa. Il senatore, secondo quanto conferma una fonte de "L'espresso", già verso la fine degli anni Ottanta aveva stretto contatti con Dell'Utri, e sempre in quel periodo erano frequenti i suoi viaggi a Milano. La stessa fonte rivela che Schifani veniva chiamato «il contabile» da Berlusconi.

Negli anni in cui frequentava il capoluogo lombardo, Schifani indossava la toga di avvocato esperto in diritto amministrativo e in urbanistica. Come avvocato faceva quanto poteva perché i patrimoni sequestrati ad alcuni mafiosi non venissero incamerati dallo Stato. Nel periodo del maxi processo a Cosa nostra è spesso presente davanti al tribunale per le misure di prevenzione dove si occupava di evitare la confisca dei beni dei boss. Tra i suoi assistiti si ricordano alcuni dei nomi di peso di Cosa nostra dell'epoca, come Giovanni Bontate, fratello di Stefano. Ossia fratello del capomafia al quale Berlusconi negli anni Settanta avrebbe chiesto protezione contro i rapimenti durante un incontro a Milano. Fu allora che venne inviato nella villa di Arcore il mafioso Vittorio Mangano, lo stalliere.

Stefano Bontate fu ucciso nell'aprile 1981 dopo avere investito a Milano circa 20 miliardi di lire, in gran parte provenienti dalle casse dei clan palermitani. Che fine abbiano fatto quei quattrini rimane un mistero, ma il boss pentito Francesco Di Carlo - che si dichiara testimone oculare dell'incontro fra Bontate e Berlusconi - nel libro "Un uomo d'onore" di Enrico Bellavia «ha più di un indizio che lo porta a sospettare che Dell'Utri ne sappia qualcosa». Il fratello Giovanni Bontate, condannato per traffico di droga al maxi processo, secondo i pentiti era uno dei più grandi riciclatori di denaro. Venne assassinato insieme alla moglie nel 1988. L'elenco dei clienti professionali di Schifani prosegue poi con Domenico Federico, un socio di Bontate in alcune attività, e il bossimprenditore Ludovico Bisconti.

Ma da tempo il senatore ha abbandonato quelle difese e una volta entrato in politica ha affermato: «La mafia si sconfigge anche inasprendo la legislazione sui patrimoni, aggrendendola al cuore». Una convinzione forse maturata dopo l'esperienza professionale fatta negli anni Ottanta. Invece per la seconda carica dello Stato la presenza del mafioso Mangano ad Arcore è «una vecchia storia» ricordata da «chi è davvero a corto di argomenti seri». Forse per questo motivo lo scorso 19 luglio, nell'anniversario dell'uccisione di di Borsellino e degli agenti della scorta, il presidente del Senato ha preferito non andare sul luogo dell'eccidio dove c'era Salvatore Borsellino, fratello del magistrato, che ha sempre condannato le affermazioni di Berlusconi e Dell'Utri sul Mangano "eroe".

Comportamento opposto quello tenuto da Gianfranco Fini. Contestato in un primo momento al suo arrivo in via D'Amelio, il presidente della Camera ha poi ricevuto appluasi fragorosi dal "popolo delle agende rosse" quando ha detto che Mangano «non è un eroe».

fonte: http://espresso.repubblica.it/dettaglio/quelle-ombre-su-schifani/2133142//1

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